RASSEGNA STAMPA

IL MANIFESTO - Un granello di sabbia nella ruota securitaria

Cosenza, 25 aprile 2008

Un granello di sabbia nella ruota securitaria
Benedetto Vecchi

Assolti perché il fatto non sussiste. Questo il dispositivo della sentenza del tribunale di Cosenza nel processo che vedeva come imputati attivisti della rete «Sud ribelle» e di alcuni militanti delle allora «Tute bianche», come Luca Casarini o Francesco Caruso. Dopo anni di indagini all’insegna di un teorema - gli scontri tra manifestanti e forze dell’ordine a Napoli e a Genova erano tesi a destabilizzare l’Italia - (pochi) mesi di carcerazione per alcuni imputati, perplessità all’interno della stessa magistratura e disinteresse dei partiti di centrosinistra la sentenza ha messo fine a un impianto accusatorio che era legittimo interpretare come un’«azione preventiva» rispetto a qualsiasi iniziativa politica presente e futura dei movimenti.
Il messaggio che veniva da alcuni giudici cosentini era chiaro: un movimento sociale deve muoversi all’interno del campo definito dal sistema politico e da alcuni istituzioni del controllo sociale che si è solito chiamare magistratura e forze dell’ordine. Se invece prova a rompere le compatibilità e i confini imposti, è la legittimità dello stato ad essere messa in discussione. Una possibilità che va preventivamente resa impossibile. La sentenza di ieri segnala la difficoltà a rendere norma dominante questa concezione paranoica del conflitto sociale.
La decisione uscita dalla camera di consiglio del tribunale cosentino è quindi una brezza che, per il momento, dirada il clima plumbeo e mefitico che sovrasta i procedimenti giudiziari che vedono coinvolti, a Nord e a Sud, oltre mille attivisti dei movimenti sociali accusati solo perché hanno promosso iniziative contro il lavoro precario, per il diritto alla casa, contro il carovita.
Ma l’assoluzione dei tredici attivisti di ieri è anche un granello di sabbia nel tritacarne securitario in cui è piombato il nostro paese. Un granello di sabbia, non un’inversione di tendenza, sia chiaro. È sempre di ieri, infatti, la notizia che le sezioni riunite della Corte di Cassazione ritengono la coltivazione di marijuana per uso personale un reato.
La posta in gioco nel processo di Cosenza, come anche in quelli che lo hanno preceduto a Genova, è infatti il progetto di normalizzazione della vita sociale, attraverso la regolamentazione dei comportamenti collettivi e personali.
Il fatto che tredici donne e uomini non debbano passare altri anni della loro vita a smontare un castello accusatorio fondato su teoremi che non hanno nessun riscontro nella realtà è sì una bella notizia. Ma è giunto il tempo di chiudere con quella logica emergenziale che ha avvelenato il sistema giudiziario italiano e che riduce ogni forma di dissenso, alterità, forma di vita eterodossa un male radicale da contrastare con il carcere.